dove iniziare?
postato il 8 Dic 2022
Discorso pronunciato da Annie Ernaux il 7 dicembre 2022 a Stoccolma (Svezia)
Traduzione automatica da https://www.livreshebdo.fr/article/le-discours-dannie-ernaux-stockholm
“Dove iniziare ? Questa domanda me la sono fatta decine di volte davanti alla pagina bianca. Come se dovessi trovare la frase, l’unica, che mi permetterà di entrare nella stesura del libro e toglierà subito ogni dubbio. Una specie di chiave. Oggi, per affrontare una situazione che, passato lo stupore dell’evento – “sta succedendo davvero a me?” – la mia immaginazione mi presenta un terrore crescente, è la stessa necessità che mi opprime. Trova la frase che mi darà la libertà e la fermezza di parlare senza tremare, in questo luogo dove mi inviti questa sera. Questa frase, non ho bisogno di cercarla lontano. Lei si alza. In tutta la sua nitidezza, la sua violenza. Lapidario. Inconfutabile. È stato scritto sessant’anni fa nel mio diario. Scriverò per vendicare la mia razza. Ha fatto eco al grido di Rimbaud: “Sono di una razza inferiore da tutta l’eternità”. Avevo ventidue anni. Ero una studentessa di lettere in una facoltà di provincia, tra ragazze e ragazzi, molti dei quali della borghesia locale. Ho pensato con orgoglio e ingenuità che scrivere libri, diventare scrittrice, alla fine di una fila di contadini, operai e piccoli commercianti senza terra, persone disprezzate per i loro modi, il loro accento, la loro mancanza di cultura, sarebbe bastato a riparare l’ingiustizia sociale da nascita. Che una vittoria individuale cancellasse secoli di dominazione e di miseria, in un’illusione che la Scuola aveva già alimentato in me con il mio successo accademico. Come avrebbe potuto il mio successo personale aver riscattato qualcosa dalle umiliazioni e dalle offese subite? Non mi sono posta la domanda. Avevo alcune scuse.
Dato che sapevo leggere, i libri erano i miei compagni, leggere la mia occupazione naturale al di fuori della scuola. Questo gusto è stato ereditato da una madre, lei stessa grande lettrice di romanzi tra due clienti del suo negozio, che preferiva che leggessi piuttosto che cucire e lavorare a maglia. L’alto costo dei libri, il sospetto che nutrivano nella mia scuola religiosa, me li rendevano ancora più desiderabili. Don Chisciotte, I viaggi di Gulliver, Jane Eyre, I racconti dei Grimm e di Andersen, David Copperfield, Via col vento, poi I miserabili, L’uva dell’ira, Nausea, Lo straniero: il caso, più che le prescrizioni della Scuola, che determinarono la mia lettura. La scelta di studiare letteratura era stata quella di restare nella letteratura, che era diventata il valore superiore a tutti gli altri, uno stesso stile di vita che mi faceva proiettare in un romanzo di Flaubert o Virginia Woolf e viverli alla lettera. . Una specie di continente che ho inconsapevolmente opposto al mio ambiente sociale. E ho concepito la scrittura solo come possibilità di trasfigurare la realtà. Non è stato il rifiuto di un primo romanzo di due o tre editori – un romanzo il cui unico merito era la ricerca di una nuova forma – che ha abbassato il mio desiderio e il mio orgoglio. Queste sono situazioni di vita in cui l’essere una donna pesava molto rispetto all’essere un uomo in una società in cui i ruoli di genere erano definiti, la contraccezione vietata e l’interruzione della gravidanza un crimine. In una relazione con due bambini, una professione di insegnante e l’onere della gestione familiare, mi allontanavo ogni giorno sempre di più dalla scrittura e dalla mia promessa di vendicare la mia razza. Non potevo leggere “La parabola della legge” ne Il processo a Kafka senza vedervi la rappresentazione del mio destino: morire senza aver varcato la porta che era fatta solo per me, il libro che solo io potevo scrivere.
Ma questo senza contare sul caso privato e storico. La morte di un padre che muore tre giorni dopo il mio arrivo a casa in vacanza, un lavoro come insegnante in classi i cui studenti provengono da ambienti popolari simili al mio, movimenti di protesta globale: tanti elementi che mi hanno riportato indietro per vie impreviste e sensibile al mondo delle mie origini, alla mia “razza”, e che ha dato al mio desiderio di scrivere un carattere di segreta e assoluta urgenza. Non si trattava, questa volta, di assecondare questo illusorio “scrivere sul nulla” dei miei vent’anni, ma di immergersi nell’indicibile di una memoria repressa e portare alla luce il modo di esistere del mio popolo. . Scrivere per capire le ragioni dentro e fuori di me che mi avevano allontanato dalle mie origini. Nessuna scelta di scrittura è ovvia. Ma chi, immigrato, non parla più la lingua dei genitori, e chi, disertore di ceto sociale, non ha più proprio la stessa lingua, pensa e si esprime con altre parole, tutti si trovano di fronte a ulteriori ostacoli. Un dilemma. Sentono, infatti, la difficoltà, anche l’impossibilità di scrivere nella lingua acquisita, dominante, che hanno imparato a padroneggiare e che ammirano nelle sue opere letterarie, tutto ciò che si riferisce al loro mondo di origine, questo primo mondo fatto di sensazioni, di parole che descrivono la vita quotidiana, il lavoro, il posto occupato nella società. Da una parte c’è la lingua in cui hanno imparato a nominare le cose, con la sua brutalità, con i suoi silenzi, quello, per esempio, del faccia a faccia tra una madre e un figlio, nel bellissimo testo di Albert Camus, “Tra sì e no”. Dall’altra i modelli di opere ammirate, interiorizzate, quelle che hanno aperto il primo universo e alle quali si sentono debitori della loro ascesa, che spesso considerano addirittura la loro vera patria. Nella mia c’erano Flaubert, Proust, Virginia Woolf: quando è arrivato il momento di riprendere a scrivere, non mi sono stati di alcun aiuto.
Ho dovuto rompere con “scrivere bene”, la bella frase, proprio quella che ho insegnato ai miei studenti, per sradicare, esibire e comprendere lo strappo che mi stava attraversando. Spontaneamente mi è venuto in mente il frastuono di una lingua carica di rabbia e di derisione, persino di maleducazione, una lingua dell’eccesso, ribelle, usata spesso dagli umiliati e dagli offesi, come unico modo per rispondere al ricordo del disprezzo, vergogna e vergogna della vergogna. Anche molto velocemente mi è sembrato ovvio – al punto da non poter prevedere nessun altro punto di partenza – ancorare il racconto del mio strappo sociale alla situazione che era stata la mia quando ero studentessa, il rivoltante, a cui lo Stato francese ha sempre condannato le donne, il ricorso all’aborto clandestino nelle mani di un creatore di angeli. E volevo descrivere tutto quello che è successo al corpo della mia ragazza, la scoperta del piacere, le regole. Così, in questo primo libro, pubblicato nel 1974, senza che allora me ne accorgessi, è stato definito l’area in cui collocherei il mio lavoro di scrittura, un’area che era insieme sociale e femminista. Vendicare la mia razza e vendicare il mio sesso sarebbe d’ora in poi una cosa sola. Come non interrogarsi sulla vita senza farlo anche sulla scrittura? Senza chiedersi se ciò rafforzi o perturbi le rappresentazioni accettate, interiorizzate, degli esseri e delle cose? La scrittura insurrezionale, con la sua violenza e la sua derisione, non rifletteva un atteggiamento dominato? Quando il lettore era una persona culturalmente privilegiata, manteneva la stessa posizione di sporgenza e condiscendenza rispetto al personaggio del libro come nella vita reale.
Fu quindi, in origine, per contrastare questo sguardo che, gettato su mio padre di cui volevo raccontare la vita, sarebbe stato insopportabile e, ho sentito, un tradimento, che ho adottato, dal mio quarto libro, una scrittura neutra, obiettiva, “piatta” nel senso che non includeva né metafore né segni di emozione. La violenza non era più esibita, veniva dai fatti stessi e non dalla scrittura. Trovare le parole che racchiudono insieme la realtà e la sensazione fornita dalla realtà sarebbe diventata, fino ad oggi, la mia preoccupazione costante nello scrivere, qualunque sia l’argomento. Continuare a dire “io” era necessario per me. La prima persona – quella per cui, nella maggior parte delle lingue, esistiamo, dal momento in cui sappiamo parlare, fino alla morte – è spesso considerata, nel suo uso letterario, come narcisista quando si riferisce all’autore. non un “io” presentato come fittizio. Vale la pena ricordare che l'”io”, finora privilegio dei nobili che raccontano nelle Memorie alte gesta d’armi, fu in Francia una conquista democratica del XVIII secolo, l’affermazione dell’uguaglianza degli individui e del diritto ad essere oggetto della loro storia, come sostiene Jean-Jacques Rousseau in questo primo preambolo delle Confessioni: “E nessuno obietti che, essendo solo un uomo del popolo, non ho nulla da dire che meriti l’attenzione dei lettori. […] In qualunque oscurità io possa aver vissuto, se pensassi più e meglio dei Re, la storia della mia anima è più interessante di quella della loro.” Non è stato questo orgoglio plebeo a motivarmi (anche se…) ma il desiderio di usare l’io – forma sia maschile che femminile – come strumento esplorativo che cattura le sensazioni, quelle che la memoria ha seppellito, quelle che il mondo intorno continua a regalarci, ovunque e sempre. Questo prerequisito della sensazione è diventato per me sia la guida che la garanzia dell’autenticità della mia ricerca. Ma a quale scopo? Per me non si tratta di raccontare la storia della mia vita né di liberarmi dai suoi segreti, ma di decifrare una situazione vissuta, un evento, una relazione sentimentale, e svelare così qualcosa che solo la scrittura può far esistere e passare. , forse, in altre coscienze, altri ricordi. Chi potrebbe dire che l’amore, il dolore e il lutto, la vergogna, non siano universali?
Victor Hugo ha scritto: “Nessuno di noi ha l’onore di avere una vita propria”. Ma tutte le cose essendo vissute inesorabilmente nella modalità individuale – “sta succedendo a me” – possono essere lette allo stesso modo solo se l’io del libro diventa, in un certo modo, trasparente e quello del lettore viene ad occuparlo. Che questo io è insomma transpersonale. Così ho concepito il mio impegno per la scrittura, che non consiste nello scrivere “per” una categoria di lettori, ma “da” la mia esperienza di donna e di immigrata dall’interno, dalla mia memoria ormai sempre più lunga del anni trascorsi, dal presente, incessantemente portatore di immagini e parole degli altri. Questo impegno come pegno di me stessa nella scrittura è sostenuto dalla convinzione, divenuta certa, che un libro può contribuire a cambiare la vita personale, a spezzare la solitudine delle cose sofferte e sepolte, a pensare diversamente. Quando l’indicibile viene alla luce, è politico. Lo vediamo oggi con la rivolta di queste donne che hanno trovato le parole per sconvolgere il potere maschile e si sono ribellate, come in Iran, contro la sua forma più arcaica. Scrivendo in un Paese democratico, continuo però a interrogarmi sul posto occupato dalle donne in campo letterario. La loro legittimità a produrre opere non è ancora acquisita. Ci sono uomini nel mondo, anche nelle sfere intellettuali occidentali, per i quali i libri scritti da donne semplicemente non esistono, non li citano mai. Il riconoscimento del mio lavoro da parte dell’Accademia svedese è un segno di speranza per tutte le scrittrici.
Nella messa in luce dell’inesprimibile sociale, in questa interiorizzazione dei rapporti di dominio di classe e/o razziale, anche di sesso, che è avvertita solo da chi ne è oggetto, c’è la possibilità di un’emancipazione individuale ma anche collettiva. Decifrare il mondo reale spogliandolo delle visioni e dei valori che la lingua, qualsiasi lingua, porta, è sconvolgere il suo ordine stabilito, sconvolgere le sue gerarchie. Ma non confondo questa azione politica della scrittura letteraria, soggetta alla sua recezione da parte del lettore, con le posizioni che mi sento in dovere di assumere rispetto agli eventi, ai conflitti e alle idee. Sono cresciuta nella generazione del dopoguerra dove era ovvio che scrittori e intellettuali si posizionassero in relazione alla politica francese e fossero coinvolti nelle lotte sociali. Nessuno può dire oggi se le cose sarebbero andate diversamente senza le loro parole e il loro impegno. Nel mondo di oggi, dove la molteplicità delle fonti di informazione, la rapidità della sostituzione delle immagini con altre, abituano a una forma di indifferenza, concentrarsi sulla propria arte è una tentazione. Ma, allo stesso tempo, c’è in Europa – ancora mascherata dalla violenza di una guerra imperialista condotta dal dittatore a capo della Russia – il sorgere di un’ideologia del ritiro e della chiusura, che si sta diffondendo e guadagna sempre più terreno in paesi finora democratici. Fondata sull’esclusione degli stranieri e degli immigrati, sull’abbandono di chi è debole economicamente, sulla sorveglianza del corpo delle donne, impone a me, a me, come a tutti coloro per i quali il valore di un essere umano è lo stesso, sempre e ovunque, dovere di estrema vigilanza. Concedendomi il più alto premio letterario che ci sia, per un lavoro di scrittura e di ricerca personale svolto nella solitudine e nel dubbio, vengo messa in grande luce. Che non mi abbaglia.
Non considero l’assegnazione del Premio Nobel a me come una vittoria individuale. Non è orgoglio né pudore pensare che sia, in qualche modo, una vittoria collettiva. Ne condivido l’orgoglio con coloro che, in un modo o nell’altro, desiderano più libertà, uguaglianza e dignità per tutti gli esseri umani, indipendentemente dal loro sesso e genere, dalla loro pelle e dalla loro cultura. Quelli che pensano alle generazioni future, alla salvaguardia di una Terra che l’appetito di profitto di pochi continua a rendere sempre meno vivibile per tutti i popoli. Se ripenso alla promessa fatta a vent’anni di vendicare la mia razza, non posso dire se l’ho mantenuta. È stato da lei, dai miei antenati, uomini e donne duri con compiti che li hanno fatti morire presto, che ho ricevuto abbastanza forza e rabbia per avere il desiderio e l’ambizione di farle spazio nella letteratura, in questo insieme di voci multiple che, molto presto, mi ha accompagnato facendomi accedere ad altri mondi e ad altri pensieri, compreso quello di ribellarmi e volerlo modificare. Per registrare la mia voce di donna e di disertore sociale in quello che si presenta sempre come luogo di emancipazione, la letteratura.»
Ho tradotto e vi condivido l’intervento di una delle scrittrici che amo di più, e di cui ho letto tutti i libri, perchè mi ha fatto emozionare ancora una volta. Non potrò mai ringraziare abbastanza questa mia coetanea, che mi ha fatto anche ripercorrere la mia vita nei suoi scritti, e Luisa Carminati che me l’ha segnalato.