relazioni e cura

postato il 4 Lug 2024
relazioni e cura

L’ultimo numero della rivista online Riflessioni sistemiche intitolato Relazioni e cura contiene il mio articolo La relazione primaria che condivido sperando che interessi:

La relazione primaria – di Laura Cima

Il concetto di relazione «È uno dei concetti filosofici più problematici e più ricchi di storia. In generale esso designa ogni rapporto collegante, in maniera essenziale o accidentale […] è quello che si presenta quando si rifletta sul legame che variamente stringe e inquadra i varî elementi del pensato, e s’indaghi la natura oggettiva o soggettiva di tale legame rispetto a quella degli stessi elementi». (Calogero G.)

La filosofia, si sa, è fondata su paradigmi maschili che non mi interessa rivangare qui e quindi uso solo all’inizio questa definizione filosofica di relazione perché tutto quello che scriverò fa emergere invece la relazione primaria, a partire da quella della madre con i figli, che nella filosofia è assente, mentre nella vita ne è il fondamento. Relazione che porta con sé quella carica empatica e di cura che, è quella che regge da sempre il mondo e ha permesso alla nostra società umana, come ad altre specie, di riprodursi. Se risaliamo ai filosofi presocratici incontriamo la negazione dell’oggettività della relazione, concepita come fenomeno puramente mentale. Mi conforta, perché ne deduco che già allora si considerava la relazione non astratta ma legata a soggetti determinati. E soprattutto al corpo e all’emotività.

Questa radice storico/filosofica mi piace perché voglio considerare la relazione associata alla cura, ma non come compito non retribuito, assegnato dal patriarcato alle donne per escluderle dalla scena pubblica. Il valore del lavoro di cura fu considerato nella conferenza promossa dall’Onu nel 1995 a Pechino (ONU, 1995). Antonella Picchio, insieme a Selma Jones, chiese di conteggiarlo nel Pil. Allora era ministra delle pari opportunità, Laura Balbo, in quota verde, che cercò di promuovere una legge al riguardo. Ma la sperimentazione fallì, come in altri paesi che provarono ad inserire la cura nel PIL, perché il valore era così alto che avrebbe portato tutti i bilanci in deficit.

Sono laureata in filosofia ma con specializzazione sociologica alla scuola di Luciano Gallino. La mia tesi di laurea affrontava già, più di mezzo secolo fa, la divisione dei ruoli tra donne e uomini, ideologia e modello famigliare patriarcale e, infine, il rapporto della bambina con la madre come la relazione fondamentale, primaria di tutte le donne. La rivoluzione antiautoritaria del Sessantotto che aveva come protagoniste le donne insieme ai giovani, metteva in luce la condizione di oppressione della donna e la voglia di riscatto e liberazione che affrontavo come il nucleo fondamentale da sviluppare, mettendo in luce le relazioni personali, culturali, scientifiche. La critica a Marx, Freud, ed altri, si sviluppava attraverso l’autocoscienza, diventata contemporaneamente pratica, verifica, teorizzazione politica e momento organizzativo. Quindi raccontavo come le relazioni con il proprio inconscio e con le altre partecipanti fossero il nucleo politico dei movimenti di liberazione delle donne. Da cui emerse la critica radicale alla famiglia e all’educazione al ruolo sottomesso e relegato al privato della donna, che doveva essere casalinga, madre, accondiscendente e disponibile alla sessualità maschile.

In quegli anni di rivoluzione culturale e sociale, si affermò la nuova ondata di femminismo che scavava più a fondo di quanto avessero fatto le Suffragiste all’inizio del secolo, e che fece emergere le relazioni sessuali, culturali e sociali che dovevano essere ‘spezzate’ per permettere alle donne di liberarsi dal giogo del patriarcato, come teorizzarono le militanti di ‘Cerchio spezzato’ di Trento.

La pratica dell’autocoscienza evidenziò come le relazioni tra donne, liberate dai condizionamenti maschili, avessero la forza di cambiare i rapporti sociali che la ‘classe operaia’ non era riuscita a modificare tra donna e uomo, e lo sapessero fare con il protagonismo nonviolento delle donne.

Le relazioni tra umani possono essere di certo rispettose, empatiche, amorose, ma purtroppo anche violente, autoritarie, fredde e di estraneità. È importante capire insieme come si originano e perchè scivolano nella violenza e nell’autoritarismo se si vuole agire il cambiamento senza violenza e con il consenso sociale.

La relazione di cura che da sempre e in ogni luogo è fondamentale è quella della madre con i figli, a cominciare da quando sono concepiti, se desiderati, e durante la gravidanza. Quando si manifestano i primi movimenti nel ventre materno, e l’uno diventa chiaramente due, l’emozione del rapporto con un nuovo essere, di cui ormai si conosce il sesso molto presto dopo il concepimento, articola il desiderio nell’aspettativa, con una relazione che all’inizio pare unidirezionale ma man mano diventa in qualche modo condivisa a suon di movimenti individuati come pugni o calcetti, che spingono la mamma a cominciare anche un dialogo con la nuova creatura.

Siamo tutte e tutti nati da una madre che ci ha dato la vita e in qualche modo la relazione primaria ci plasma e rimane a condizionare tutta la nostra vita, anche se spesso in modo inconscio.

Di questi tempi il tentativo invidioso di maschi di cancellarla si articola in varie forme e dipendenze, in relazioni difficili, nel linguaggio, nell’arte e nella creatività, ma è sempre legata all’istinto sessuale e conduce, purtroppo non di rado, alla violenza, quando si concretizza nell’ansia del possesso che il potere patriarcale induce.

Voglio ricordare qui un recente film di Yorgos Lanthimos “Povere creature”, ispirato da un romanzo di Alasdair Gray (Grav A., 2023). Godwin Baxter, il cui nome ‘diovince’ la dice lunga sulla relazione che aveva il padre con lui, oggetto di esperimenti-torture che lo sfigurano, rende fede al suo nome, e alle relazioni con maschi, recuperando una donna annegata a cui trapianta il cervello della bimba che portava in grembo, dando vita a Bella, un’adulta con un modo di relazionarsi da bambina. Lo cito perché è interessante valutare razionalmente la storia ma soprattutto le relazioni che si sviluppano e che ci coinvolgono emotivamente.

Contraddizioni storiche e attuali della relazione tra donne e uomini si intrecciano con mostri nel percorso verso la liberazione delle donne, non solo perché la Wollstonecraft, autrice della “Rivendicazione dei diritti della donna”, era la madre di Mary Shelly, l’autrice di Frankenstein, che ha aperto il filone di questo genere di racconti. E quindi c’è una relazione chiara dei movimenti di liberazione della donna e le storie con relazioni tossiche.

Nel “Racconto dell’ancella” di Margaret Atwood le donne sono asservite all’uomo per scopi riproduttivi dopo una guerra le cui le scorie radioattive hanno causato il dilagare del fenomeno della sterilità mettendo a rischio la continuazione della specie umana.

I capi sono ispirati da una logica disarmante nella sua lucida e drammatica banalità: in un mondo in cui la natalità è quasi pari allo zero, l’unico modo per evitare l’estinzione del genere umano è invertire la tendenza. Il modo più semplice per realizzare questo progetto di conservazione della specie è privare le donne di ogni diritto costituzionale e riprogettare una società di stampo medievale, patriarcale e maschilista, in cui le pochissime donne fertili vengono usate solo come mezzo riproduttivo.

Inizia così la storia di Difred, un tempo madre e donna di successo e ora ancella e schiava in una società senza diritti. Seguendo il precetto biblico della Genesi (30,1-4), secondo cui i mariti qualora avessero mogli sterili, potevano copulare con le proprie serve per generare figli, i Comandanti si dotano di Ancelle, donne fertili in stato di completo asservimento, schiavizzate al solo scopo di procreare.

Le donne non hanno più nemmeno il nome: Difred non è il nome della protagonista, lei è l’ancella del Comandante Fred. La sterilità può essere imputata solo alla donna mentre viene tenuta segreta quella del Comandante e degli altri maschi.

Le donne indossano le stesse vesti, non hanno diritto di parola, non possono leggere, ridere, lavorare o avere una famiglia. L’identità personale viene cancellata. In questa società non c’è più spazio per il confronto e lo scontro, la collaborazione, la scoperta e la curiosità (www.stateofmind.it, 2017).

Il problema della fecondazione per garantire la continuità della specie viene anche affrontato  periodicamente  da  scienziati  tentando  di  escludere  la  donna  madre.

L’ectogenesi, ossia la possibilità che la gestazione avvenga fuori dal corpo umano, non è più una visione fantascientifica, ma una realtà possibile, che prefigura scenari preoccupanti.

Di utero artificiale si parla almeno da quando nel 1988 ci trovammo come ecofemministe a Bologna nel convegno internazionale “Madre Provetta”. Esproprierebbe le donne e garantirebbe agli uomini di riprodursi senza dovere affittare l’utero di donne povere di paesi poveri per comprarsi un figlio. Oppure evitando di ingravidare senza consenso. Per questo serve una riflessione continua sull’etica e sui temi del concepimento, della gestazione, della maternità e di tutti i diritti riproduttivi. I tentativi maschili di riprodursi senza legami sono continui, come gli abbandoni, o addirittura i femminicidi per non assumersi la responsabilità paterna.

Nel libro di Charlotte Perkins Gilman, “Terradilei” (Perkins G.C., 2015) i rapporti tra donne diventano anche capacità di partenogenesi: «Appena compiuti i venticinque anni, tutte cominciavano a generare. E ciascuna partorì, come la madre, cinque figlie. Presto ci furono venticinque Nuove Donne, tutte Madri, e allora lo spirito della nazione cambiò, passando da una dolente e strenua rassegnazione a un’orgogliosa gioia. Le anziane, quelle che ricordavano gli uomini, a poco a poco morirono; poi morirono, necessariamente, anche le giovani di quel gruppo originario, e restarono allora centocinquantacinque donne partogenetiche, a fondare il nuovo popolo. […] Così nacque la Terradilei! Un’unica famiglia, discesa da un’unica madre!»

Charlotte Perkins Gilman scrisse la prima utopia femminista, che è ancora emozionante leggere oggi per capire come potrebbe essere una società creata e gestita dalle donne. Un libro ironico e divertente che critica la societá patriarcale e mette in rilievo l’insensatezza, oltre che l’ingiustizia, a cui le donne sono costrette. È impressionante scoprire come lei, all’inizio del secolo scorso, immaginasse una comunitá di sole donne autosufficiente da duemila anni, e discendente da una sola madre, vivere felice proprio perché lontana da quella presunta civiltá in cui viveva lei. Una società, con caratteristiche ancora ottocentesche dove gli uomini, a cominciare dal padre, dal marito e dal medico curante, la stavano conducendo alla pazzia. Ne parla nel libro “La carta da parati gialla” (Perkins G.C., 2019). Socialista ed ecofemminista d’antan, piú di un secolo fa, divenuta famosa con “Women and economics” (Perkins G.C., 1970), pubblicato nel 1898 e tradotto in 7 lingue, cercó di prefigurare un ordine sociale basato sulla qualitá della vita, come Darwin che credeva le donne collettivamente capaci di indurre al cambiamento, e la cui teoria dell’evoluzione si stava dibattendo nell’ambito delle nuove scienze di inizio secolo. Gilman pensa che non siano la scienza e la tecnologia, né le riforme proposte dal gruppo dominante, che possono portare ad un ordine sociale pacifico e felice, ma la presa di coscienza delle donne, emarginate ma capaci di amore e collaborazione. Il mondo di sole donne di Terradilei ha ormai ha dimenticato gli uomini fino a quando tre esploratori non lo scoprono.

Questa società immaginata per liberarsi dal mondo oppressivo degli uomini ha ispirato e aiutato le donne che l’hanno letta e si sono appassionate. Anch’io sono stata spinta a immaginare finalmente un altro mondo possibile, governato dalle donne, come ancora lo sono le società matriarcali che sopravvivono in tutti i continenti, alcune delle quali ho incontrato e mi hanno sorpresa ed emozionata. Queste società esistono tuttora e l’archeologa Maria Gimbutas ha rintracciato e descritto le loro origini (Gimbutas M., 2008).

Ma per capire veramente questa Terradilei, in cui le donne si riproducono anche senza bisogno del seme maschile, e quindi che esclude totalmente gli uomini, è interessante leggere l’inizio, quando tre vecchi amici, con una spedizione scientifica scoprono questa terra sconosciuta. I loro commenti esprimono chiaramente la mentalità patriarcale. Parte da qui il racconto che Gilman scrisse nel 1915: una utopia femminista dell’età contemporanea. Insofferente alla disuguaglianza imposta alle donne, Gilman denunciò l’ingiustizia della condizione femminile che stava patendo, per liberarsene e aiutare altre donne.

Credo sia superfluo commentare quanto siano empatiche e rispettose le relazioni nella società immaginata da Gilman e come le obiezioni dei tre maschi che arrivano risultino piuttosto assurde, per la violenza che sottendono nei confronti delle donne e degli animali che hanno assorbito dall’organizzazione sociale da cui provengono.

Mi sembra interessante osservare l’organizzazione sociale di questa società di sole donne, che sono state capaci di liberarsi dalla dipendenza del seme maschile che continua a condizionare pesantemente le donne e il loro desiderio di maternità e libertà in tutto il mondo.

Anche il ciclo di romanzi di Frank Herbert pubblicato a partire dal 1965 è interessante. Herbert era uno studioso che si occupava di deserti e che studiò l’erosione delle dune costiere dell’Oregon, le cui sabbie furono stabilizzate introducendo una pianta, l’Ammofilia arenaria, proveniente dalle dune del Mediterraneo.

Herbert si rivolgeva con queste parole alla folla di 30mila persone riunite a Philadelphia per la prima Giornata della Terra della storia: «Non voglio essere nella posizione di dover dire ai miei nipoti mi dispiace, di Terra per te non ce n’è più. L’abbiamo usata tutta» (vedi Stefanello V., 2021).

Il primo romanzo, “Dune”, descrive un universo guidato dagli uomini: imperatori, duchi, baroni e Messia. Ma sono le donne quelle che detengono il vero potere, e tirano le fila del destino. Questo perché una femmina ha l’attitudine al dare e non quella a prendere, mentre per il maschio è il contrario e questo inibisce la sua capacità di abbracciare l’intero spettro dei ricordi degli antenati e impedisce relazioni intergenerazionali che aiutino ad affrontare le difficoltà.

In Dune la Sorellanza Bene Gesserit è un ordine matriarcale potente ed esoterico, le cui componenti sono dotate di grandissimi poteri psichici e mentali, ordiscono piani e macchinazioni e sono pronte a tutto pur di portare l’umanità a un ulteriore stadio d’evoluzione.

In Dune «la pista ecologica è rappresentata attraverso superfici sensibili e configurazioni postumane, infrastrutture per il risparmio energetico e tute termiche che simulano la capacità di piccoli mammiferi di immagazzinare e centellinare l’acqua nel deserto […] il tema ecologico e quello coloniale si intrecciano – nella comprensione che qualsiasi forma di sfruttamento intensivo della vita biologica ha comunque un impatto sull’ecosistema e sulle popolazioni.» (Zuccon F., 2021).

«Tutta l’ecologia del pianeta-Dune ruota intorno alla sabbia, ma anche all’elemento più prezioso per chi vive nel deserto: l’acqua. Su Dune tutto si misura con l’acqua, dal valore di un animale da soma a quello di un uomo. I Fremen, gli abitanti del deserto, indossano tute distillanti, che raccolgono tutti i liquidi espulsi dal corpo umano, dal sudore all’urina, per essere raccolti in apposite sacche e quando un uomo viene ucciso o muore accidentalmente c’è sempre qualcuno che eredita la sua acqua. Il sogno dei Fremen è quello di cambiare faccia al pianeta proprio grazie all’acqua, che viene raccolta in enormi vasche, nascoste agli occhi di tutti, negli anfratti rocciosi disseminati nel deserto di Dune” (vedi Dune e Climate Fiction).

Come in “Terradilei” anche in “Dune”, c’è attenzione alla questione ecologica e alla capacità femminile di relazionarsi con empatia e cura. Potremo quindi intravedere una evoluzione verso un ecofemminismo in grado di contrastare il patriarcato proprio per le relazioni nuove che estendono l’attenzione e la cura anche all’ambiente in cui la società è inserita.

Parlare di relazione è difficile se al centro non rimane la madre perché il patriarcato e il pater rimandano sempre a un potere possessivo e predatorio che con difficoltà, solo alla festa del papà il 19 marzo di ogni anno, si apre invece a racconti di relazioni d’amore e di cura da parte di uomini che si sono assunti la pratica della cura, con figli propri, nipoti, fratelli minori o altri uomini con un rapporto di affidamento. Anche verso donne più deboli, e spesso anziane come madre o zie, bisognose di aiuto e di cura. Ma resta il sospetto che spesso si tratti di ancelle, utili al loro narcisismo nella gran parte dei casi, e quindi la relazione sia in realtà sbilanciata a vantaggio dell’uomo.

Recentemente ho partecipato ad un dibattito collegato alla donazione al Comune di Milano della statua di Vera Omodeo della madre che allatta, originato dalla decisione di una commissione tecnica che ha dichiarato l’inopportunità di collocarla sotto il Comune perché ‘portatrice di valori non condivisi’. Non è chiaro chi si sentirebbe offeso perché non condivide i valori di una madre che allatta. Siamo tutti nati da un corpo di donna e risulta difficile capire: io sostengo che si tratti di sentimenti di invidia verso una madre che allatta da parte di chi madre non può essere perché il suo corpo non è adatto. L’invidia del pene teorizzata da Freud, e demolita da Carla Lonzi in: “Sputiamo su Hegel” (Lonzi C., 1974), oggi si è convertita in invidia dell’utero come avevo già previsto in un mio scritto risalente agli anni Ottanta:

La cultura ecologista, il paradigma innovativo che ridisegna il rapporto tra noi e il mondo, affascina inevitabilmente le donne che vi ritrovano la possibilità, dopo secoli di oppressione, di un grande protagonismo della cultura e dei saperi elaborati in modo sotterraneo, e difficilmente visibili in questa società disegnata a misura di un ‘homo faber’, che pare civilizzatore ma è insieme rapinatore, aggressore, violentatore dominatore.

Il modello di potere politico ed economico che la cultura illuminista ed industrialista sono andate affermando ha infatti cancellato l’appartenenza delle donne alla società produttiva e alla rappresentanza.

La sfera del privato in cui la creatività femminile è stata relegata, nell’aspetto fondante la società umana che in quello procreativo, è il segno della totale appropriazione di gestione del potere da parte maschile. Dal diritto di famiglia, al modello di sviluppo economico, alla democrazia formale che non garantisce quella sostanziale, la lettura del dominio maschile nella società è molto chiara.

Non credere di avere diritti” un importante testo del 1977 della Libreria delle donne di Milano, che interpreta il ciclo del femminismo italiano degli anni ‘70 a partire dalla pratica di un gruppo di donne, denuncia il segno del diritto neutro basato su un patto sociale concepito avendo unicamente presente l’esperienza umana maschile. Da Olympe de Gouges alle Suffragiste, tutti i movimenti per i diritti in cui molte donne hanno sperato di trovare reale spazio di cittadinanza inserendovi le proprie rivendicazioni emancipazioniste, sono serviti a rendere meno brutale il volto di un potere maschile che, dopo la Rivoluzione francese, ha lasciato passare ben più di un secolo prima di concedere il diritto di voto alle donne» (Cima L., 1989).

In Italia una prassi automatica delle anagrafi ha assegnato il cognome del padre ai figli. Oggi è obbligatorio il doppio cognome dopo la sentenza della Corte Costituzionale che la rese obsoleta denunciandone “il retaggio di una concezione patriarcale della famiglia” (vedi Corte Costituzionale, 2022), e chiedendo al Parlamento di legiferare in merito per permettere alle donne di dare ai figli il loro cognome. Peccato che il Parlamento continui a temporeggiare e non si arrivi nemmeno a una formulazione legislativa in Commissione da mettere all’ordine del giorno in aula. Potere maschile che rimane quindi ancorato come può per non arretrare.

Anche attraverso la già diffusa fecondazione artificiale e l’utopia maschile della maternità extracorporea verso cui si sta indirizzando da tempo una parte della ricerca del settore, sperimentando sugli animali domestici quello che si vorrebbe poi possibile anche negli umani. Per questo oggi parrebbe più attuale parlare di invidia dell’utero piuttosto che di quella del pene.

Negli anni ‘70 il movimento femminista denunciò come nel privato le donne fossero indotte a sorreggere la creatività maschile attraverso le manifestazioni della sessualità e della affettività che esse mettono a disposizione del piacere degli uomini, e ‘del riposo del guerriero’ e come anche nell’attività economica e politica il ruolo femminile richiesto fosse un prolungamento di quello familiare: fornitrice di idee, consigliera, fornitrice di servizi anche personali, lavoratrice altruista che non chiede per sé ma gode dell’affermazione dei ‘suoi’ uomini.

La donna rispettosa delle gerarchie date ‘si affida a un uomo o a un’impresa maschile’ e in tal modo si fa complice di una giustizia neutra che uniforma agli interessi di chi porta avanti un modello di sviluppo di rapina, che schiaccia le differenze.

Ovviamente il movimento delle donne è in contrasto con questa tendenza omologatrice. Esso ha preso l’avvio da donne che, rifiutando la prospettiva di portarsi alla pari con gli uomini, hanno scelto di privilegiare, per conoscersi e regolarsi nel mondo, i rapporti con le altre donne. Per questo la visibilità e la fedeltà a sé stessa, il riscoprire e portare a coscienza il rapporto con la propria madre come fonte di socializzazione differente da quella proposta dalla legge del padre, il ricercare le figure di madri simboliche, storiche e attuali, a cui affidare la propria crescita di consapevolezza, l’opporre alle gerarchie di potere, quando s’impongono tra di noi o quando tendono a riprodursi tra di noi la pratica della disparità perché fra esse venga a galla e abbia il primato il desiderio femminile sono insieme obiettivi e metodo che discendono dal pensiero della differenza.

Luisa Muraro ne sintetizza chiaramente i fondamenti affermando che il paradigma della differenza dice che l’essere uomo ha in sé l’interezza dell’umanità, che l’essere donna ha in sé l’interezza dell’umanità, e che i due sono differenti. Quindi l’umanità è due. Uomo e donna non sono complementari e non sono confrontabili, sono assoluti che si limitano (Muraro L., 1991; 2015). Questo pensiero è straordinariamente in sintonia con quello ecologista perché il concetto del limite e quello della differenza li accomuna. Cosi come i fondamenti della crisi del modello produttivo, politico e sociale definito dall’homo faber che ha portato al rischio di sopravvivenza della vita sul pianeta inducono a trovare potenzialità per un’inversione di tendenza e la capacità di praticare modelli ecocompatibili in chi ha già elaborato le basi teoriche di una cultura nuova.

La crisi profonda di identità che oggi gli uomini si trovano a fronteggiare, a partire dalla simbologia sessuale che si sono definiti nei secoli, è proprio fondata su questa totale messa in discussione dei modelli maschili, pena la sopravvivenza della vita sulla terra.

Mi pare di individuare due atteggiamenti maschili opposti: uno di resistenza ad oltranza, di difesa dura delle posizioni di potere raggiunte e l’altro di coscienza reale e non ideologica dello smacco, di ascolto e curiosità nei confronti della cultura delle donne, di tentazione di affidarsi nei confronti della cultura delle donne, di tentazione di affidarsi per cercare nuove dimensioni, nuovi punti di vista, nuove domande e nuovi bisogni. Sono molto curiosa, di leggere al riguardo interventi di uomini che hanno imparato in questi anni ad ascoltarsi e cercato di contrastare la scissione mente-corpo, rafforzando la coscienza dell’interdipendenza con l’ambiente.

La sfida e la voglia di vincere che ci siamo giocate finora rischiano di essere schiacciate sempre dall’omologazione. Non abbiamo crediti verso gli uomini e lo spazio che ci siamo prese è proporzionale alla nostra assunzione di responsabilità. I nostri progetti incominciano a prendere forma e a disegnare una società pensata da noi. Imparare a governarla con il nostro punto di vista, significa darci vicendevolmente valore e autorità, significa anche sostenerci nell’affermazione personale e politica del nostro modo di essere, rinunciando a benevoli sguardi maschili che inevitabilmente si trasformano in denigrazione appena la nostra visibilità sarà vissuta come minaccia di poteri consolidati. La gioia di appartenere al genere femminile e insieme alla natura di cui sentiamo i vincoli nella nostra storia e nel nostro corpo, ci può riscattare oggi dalla miseria in cui il pensiero maschile ci ha buttate. Questi vincoli per noi non sono mai stati solo limitanti, ma opportunità continue di scoperte che poi ci siamo fatte espropriare. In Africa e in Asia, ancora l’80% dell’agricoltura è in-mano alle donne che attraverso i loro saperi tramandati e arricchiti nei secoli, hanno saputo conservare le risorse. Man mano che ne vengono espropriate da mani maschili si passa alle monocolture e ai pesticidi. L’inversione di rotta non può che portare un segno femminile a cui gli uomini contribuiranno se sapranno rinunciare al guadagno immediato che questa società, costruita a loro immagine e somiglianza, ancora per poco gli garantisce» (Cima L., 1989).

Come ha scritto Maria Mies, «se consideriamo il lavoro di una madre, e di una casalinga o comunque quello di cura non pagato svolto da tutte le donne in tutto il mondo anche per sostenere la vita degli uomini, ci rendiamo conto immediatamente che: per lei il lavoro è sempre sia fatica che fonte di gioia e appagamento. I bambini possono esserle di peso e procurarle molto lavoro, ma questo lavoro non è mai totalmente alienato o morto […] le sue pene sono pur sempre più umane della fredda indifferenza del lavoratore industriale o dell’ingegnere di fronte al suo prodotto, alle merci che produce e consuma» (citata in Corazza C., 2012).

Dopo i racconti di fantascienza in cui le relazioni tra donne plasmano società dove gli uomini non ci sono o comunque non sono in primo piano, riprendo il pensiero che propone una struttura di analisi sempre più estesa, come sempre più estesa divenne la domanda da cui era partito Bateson e l’oggetto su cui si interrogava, fino ad arrivare a porre attenzione ai fenomeni di interazione sociale, alle questioni ecologiche e ai problemi legati all’organizzazione e alla comunicazione del mondo del vivente: «l’operante impalcatura della vita, quella vita che, nel suo senso più ampio, abbraccia l’intero pianeta vivente nell’arco della sua evoluzione» (vedi P.I.I.E.C.). La terapia sistemica ha come oggetto del suo intervento in particolare le alleanze, le gerarchie i ruoli e le modalità comunicative.

Il lavoro di cura non pagato delle donne, e le relazioni che ne conseguono, in particolare quelle che rattoppano i guasti della violenza maschile, stupri, guerre, femminicidi, maltrattamenti, regge il mondo, ma non si può conteggiare il suo valore nel Pil, deve restare sommerso.

La cura e l’empatia, portate in tutte le relazioni dalle donne su modello della relazione materna, devono invece diventare parte fondante della politica per riavvicinarla ai giovani, a quelli che non votano più e pensano che gli eletti non li rappresentino nel modo più assoluto visto che non sono capaci di entrare in relazione con loro, conoscerne bisogni e desideri. Devono invadere anche i cosiddetti corpi intermedi, cioè le forze sociali, la società civile e gli intermediari tra pubblico e privato.

Relazioni di tutti i tipi e generi stanno alla base di tutte le organizzazioni sociali a partire dalla famiglia e nei luoghi di convivenza privata. Determinano anche i rapporti di lavoro, quelli di associazioni formali o informali, e dei partiti, regolati nel nostro paese dall’art 49 della nostra Costituzione: “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Quindi relazioni politiche importantissime che purtroppo nessuna maggioranza parlamentare ha voluto regolamentare con una legge attuativa, lasciando una indeterminatezza che certo non ha aiutato la nostra democrazia a consolidarsi.

Oggi siamo sommersi da relazioni tossiche, autoritarie e violente che il patriarcato morente porta con sé.

Teniamo conto di giovani e giovanissimi che le hanno assorbita da genitori, fratelli, amici, nei social dove si riversano tutte le frustrazioni subite assumendo il ruolo tipico di odiatori e distruttori, quelli a cui non va mai bene nessuno e niente, e la riproducono quasi inconsciamente. Mi spavento quando a stuprare minorenni sono altri minorenni: i casi più eclatanti sono stati quelli nei confronti di due ragazzine a Parco Verde di Caivano, quasi favoriti dalla camorra, o della tredicenne nel centro della Catania di mafia, che in quelle terre governano ancora, con potere pressochè assoluto, e formano giovani arroganti, che scorrazzano armati con moto di grossa cilindrata e si sentono legittimati a violentare e accoltellare. Purtroppo episodi che fuori dalle discoteche si ripetono con troppa frequenza tra bande di minorenni che si contendono già il territorio. Temiamo quindi relazioni messe in atto da uomini che si identificano completamente nel modello patriarcale di dominio della donna, della natura, dei figli e di chi è più debole e dipendente. Quelli che si sono ritagliati ruoli di potere e decisionali che permettono loro di godere di questa supremazia e quindi fanno di tutto per non perderla e anzi, per potenziarla ulteriormente.

Nel libro “La volontà di cambiare”, pubblicato in Italia nel 2022, Bell Hooks tratta una tematica poco affrontata, sia dalle donne che dagli uomini, cioè la volontà di cambiare la mascolinità patriarcale. Secondo l’autrice essere uomo nella cultura patriarcale lo costringe a rinnegare parte della sua umanità, lo mutila dall’emotività, dall’empatia, dall’amore. Diventa così un individuo che non esprime emozioni se non attraverso la rabbia, la prevaricazione e la violenza. Infatti, il patriarcato insegna agli uomini ad essere narcisisti, infantili e psicologicamente dipendenti dai loro privilegi. Secondo Hooks, c’è una possibilità di cambiamento che può avvenire solamente se si lavora in un’ottica femminista per modificare le relazioni violente e prevaricatrici a cui gli uomini sono educati a differenza delle donne, educate alla cura e alla empatia. Per Hooks diventa fondamentale, insieme alla denuncia della violenza patriarcale, affrontare i sentimenti negativi provati dagli uomini, capirne la natura e diffondere una cultura di riconciliazione e pratiche di condivisione e di non violenza.

Il patriarcato, oltre a impedire il miglioramento della condizione femminile, tiene quindi sotto scacco anche l’uomo, che pur essendo privilegiato in tutti gli ambiti sociali, non è però libero di essere ciò che desidera.

Il cambiamento può avvenire se si impara a coltivare la propria integrità, l’empatia, la consapevolezza emotiva, le abilità relazionali non violente e la capacità di essere connessi con gli altri, per realizzare pienamente le pari opportunità e l’uguaglianza sociale.

In molti dei film e dei libri che ritraggono uomini che resistono al patriarcato, alla fine il passaggio è semplicemente dal patriarca dominatore violento a quello gentile e benigno. Il sistema educativo che si pratica in famiglia ed è poi rafforzato da tutte le istituzioni parte dal presupposto che la donna è debole mentre l’uomo è forte. L’educazione patriarcale permette alle donne di esprimere i propri sentimenti, mentre agli uomini, già dalla tenera infanzia, si chiede una sorta di stoicismo emotivo. Tutti i sentimenti vanno repressi, eccetto la rabbia, espressione naturale e positiva della mascolinità. Questo è il dogma patriarcale.

Per dare valore alla capacità di amore e cura delle donne nelle relazioni è utile considerare se c’è stata una evoluzione positiva a partire almeno da questo millennio oppure se femminicidi e stupri, maltrattamenti e violenze maschili la fanno da padrone ancora in tutto il mondo.

Se consideriamo la pretesa di possesso, l’invidia rispetto alla capacità di prepararsi alla laurea con successo, le torture praticate in auto prima di uccidere Giulia Cecchettin da parte di Filippo Turetta, un ventenne di buona famiglia che non aveva precedentemente mostrato deviazioni e veniva definito ‘un bravo ragazzo’, rimaniamo sconcertati come in tante altre aggressioni. Come è possibile che emerga insieme all’insicurezza derivante dal rischio di abbandono, una volontà di possesso da preferire uccidere chi si diceva di amare piuttosto di perderla? E le coltellate inferte prima come tortura? Cosi’ come le botte di mariti e compagni di vita non considerati violenti che, abbandonati, uccidono?

Violenza di uomini sulle donne, preferisco evitare di usare ‘violenza di genere’, una formula inventata per nascondere la donna che, non a caso, va per la maggiore.

L’educazione che noi riceviamo non ci dice che apparteniamo ad un’unica grande famiglia, quella umana, che fa parte di un mondo in cui vivono tante altre specie, animali e vegetali con cui siamo connessi, con cui dobbiamo relazionarci smettendo il dominio antropocentrico, rigettato a parole anche dal Pontefice nelle due encicliche Laudato sì (2015) e Fratelli tutti (2020). A parole perché nei fatti non si sono riscontrati grandi cambiamenti nell’atteggiamento della Chiesa.

Il nostro paese ospita anche il Vaticano, sede della massima autorità religiosa, naturalmente sempre maschile e a capo di un clero di sacerdoti tutti maschi, è necessario affrontare anche cosa prevede la teologia in merito alle relazioni.

“La teologia ci dice che la Trinità è fatta di ‘relazioni sussistenti’: cioè tre persone sono in intima e costante relazione tra loro e in questa relazione trovano la loro natura e la loro forza e dignità. Dio è quindi un insieme di relazioni: del Padre verso il Figlio, del Figlio verso il Padre, del Padre e del Figlio verso lo Spirito e viceversa” (Gugliotta G., 2017).

La Madonna dov’è finita con la sua relazione di cura del Gesù bambino, che in tutte le raffigurazioni allatta? Non può partecipare al sistema patriarcale della Trinità per colpa di Eva che tentò Adamo con la mela? E neppure come madre di Caino e Abele Eva esce dall’ombra. Le donne presenti nel Vecchio e Nuovo Testamento sono veramente poche e, Maria Maddalena, l’unica vicina a Cristo, visto che gli apostoli sono tutti maschi, è una donna, non madre, che compare nel mondo degli uomini perché vive prostituendosi. Quindi le donne non hanno accesso a relazioni ‘sussistenti’ che sono riservate ai maschi, visto che garantiscono forza e dignità. E i sacerdoti devono essere solo maschi perché hanno il potere di trasmettere parola e giustizia divine.

La relazione perfetta la vediamo risplendere anche nella massima opera della Trinità: l’Incarnazione del Figlio di Dio e la sua immolazione sulla croce. L’immagine trinitaria è presente in Maria quando l’Altissimo manda dal cielo il Suo Spirito che avvolge come un’ombra la Santa Vergine perché generi il Figlio dell’Altissimo (Luca 1, 35)” (Gugliotta G. ibidem). Quindi adempia al suo unico ruolo permesso, quello di madre, fecondata dallo Spirito.

Direi che il tutto è talmente patriarcale da rendere difficile individuare le novità del Nuovo Testamento a favore delle donne.

In occasione delle ultime elezioni politiche noi ecofemministe abbiamo proposto alle candidate il nostro Decalogo Ecofemminista in cui il concetto di relazione ha un rilievo considerevole. Ricordo alcuni punti:

Vogliamo affermare quello di cui le donne sono esperte: relazioni eque tra le persone nel rispetto delle differenze, una società della cura, l’abbraccio alla Madre Terra e alle specie che la abitano. Il cognome materno ai figli e alle figlie ne è l’attuazione simbolica e reale a un tempo.

Il lavoro deve essere garantito a tutte e tutti con adeguata remunerazione e in condizioni che consentano ogni giorno, insieme al tempo per il riposo e per la libertà personale, un tempo per la manutenzione e la cura degli ambienti e delle relazioni, superando il modello sessista della divisione dei compiti.

Va messa in atto una ‘nuova pedagogia dell’abitare’ che, a partire dalla prima infanzia, alimenti relazioni di rispetto e di convivenza con tutti gli esseri viventi nella delicata rete di connessioni che formano l’ecosistema.

Il dialogo, basato sul confronto e sul rispetto reciproco alla base delle relazioni etiche e femministe deve essere strumento di pace nei conflitti anche e soprattutto armati.

Credo che questo scritto renda chiaro perché la relazione che regge il mondo è quella materna e come gli uomini che pretendono di occupare tutti i posti di potere, rimuovendola, non facciano altro che minacciare la vita stessa di tutte le specie.

Bibliografia

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Dune      può      essere      considerato     un      precursore     della     Climate              fiction? https://www.wired.it/play/libri/2021/09/16/dune-e-un-precursore-della-climate-fiction/ Gimbutas M., 2008. Il linguaggio della dea, Venezia Editrice, Roma.
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